Rav Giuseppe Laras, figura eminente del Rabbinato internazionale e del mondo culturale, è il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori della Biblioteca Ambrosiana. Una scelta, nata dal voto unanime del Collegio dei Dottori e che ha trovato subito conferma nell’Arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola che, della prestigiosa Istituzione, è Gran Cancelliere. Il conferimento del titolo è avvenuto mercoledì 29 aprile nella Sala delle Accademie ed è stato accolto da Laras con gratitudine e amicizia: «Lo considero – ha sottolineato - un po’ un suggello alla mia attività accademica di tutti questi anni».
Intervistato da Enrico Negrotti per “Avvenire” alla vigilia della cerimonia ha voluto ricordare il suo incontro con il cardinale Carlo Maria Martini che ha definito “salvatore” del dialogo.
Riportiamo qui di seguito lo stralcio dell’intervista.
Il suo essere inserito ad honorem tra i dottori di un’istituzione cattolica richiama il tema del dialogo ebraico-cristiano. Come lo vede oggi?
«Bisogna continuare a trovare le ragioni per stare insieme e andare avanti. La divaricazione tra ebraismo e cristianesimo sta sempre più restringendosi, si stanno formando quasi due linee parallele. Alle fine dei tempi queste linee dovranno ricongiungersi, ritrovare l’unità se, come io penso, così sarà la volontà divina. Ma è un discorso non agevole, implica rivedere tante posizioni. Il mio impegno in questo ambito si è acceso grazie all’incontro con il cardinale Carlo Maria Martini, che nonostante il suo carattere timido e riservato, era un appassionato, trasmetteva entusiasmo. Con lui ho trovato stimolo e maggiore volontà di impegnarmi».
In che modo?
«Agli inizi degli anni Ottanta il dialogo era avviato da tempo, almeno da dopo il Concilio Vaticano II, ma non molto uniforme nel suo svilupparsi. Martini ci credeva molto e ricordo che passavamo giornate, incontri a parlare delle prospettive. Lui voleva parlare con tutti, aveva creato la Cattedra dei non credenti, aveva coinvolto gli intellettuali atei o più o meno atei, era una figura moderna. Ricordo che quando io manifestavo dei dubbi sul futuro e sulle difficoltà che avrebbe avuto questo dialogo, lui rispondeva sempre: 'Bisogna avere pazienza'. Ma pazienza non nel senso di rimettersi agli eventi, ma di lavorare con insistenza e determinazione. Il dialogo infatti non è un fiume che scorre sempre allo stesso modo, ha momenti di secca, momenti di piena, quindi alti e bassi. L’importante è cercare di non lasciare che si fermi, conosco bene tutti i meandri del dialogo, so quanto sia difficile. E apprezzo ancora più di un tempo Martini, che conosceva meglio di me questi problemi, e nonostante l’atmosfera in certi settori della Chiesa andava avanti. Oggi credo che giustamente lui possa essere definito forse addirittura il “salvatore” del dialogo. Un dialogo che peraltro è continuato con i due successori di Martini: in modo diverso, Tettamanzi e Scola sono due anime grandi».
(“Avvenire”, 29 aprile 2015)