Quando sono arrivata a Gallarate, venerdì pomeriggio, era morto da poco.
Mentre lo vestivano, sono scesa alla cappelletta del secondo piano dove don Damiano Modena ha celebrato la messa del giorno insieme con padre Silvano Fausti, don Paolo Cortesi e un giovane monaco di Praglia. C' erano la sorella, il nipote, qualche amica e poi, o prima, le infermiere e gli infermieri che lo hanno accudito.
Nella sua omelia di tre minuti Silvano Fausti ha ricordato una gita nella bergamasca. Hanno superato un pastore sdraiato su un prato le cui pecore brucavano qua e là. Martini ha detto: «Lo vedi, il buon pastore? Non fa nulla. Lascia che le pecore pascolino». Quando sono risalita, sul lungo letto, il padre Martini giaceva in pompa magna tra due tavolini carichi l' uno di medicinali e l' altro di libri, fogli, due iPad. La morte lo ha colto un po' accigliato, e gli ha affinato il profilo. Era molto bello, come sempre. E, come sempre dopo un incontro con lui, io ero serena. Non ho sentito, allora, né sento adesso, alcun bisogno di vedere come ne parlano i media. Le poche parole dei pochi amici, i loro gesti sciolti, l' atmosfera distesa: il mio grande amico era tutto lì. Da dove mi è venuto, mi veniva, quella serenità? Arrivavo da lui affannata, piena di angosce e di problemi. Come lo salutavo, mi sentivo leggera. Ero su un altro piano, problemi e angosce divenivano emozioni trasparenti, attraversabili, da accantonare. E questo indipendentemente dal livello del colloquio, di norma tranquillo, familiare, o dalle questioni affrontate. Niente di sublime, e io stavo bene.
Nei brutti giorni delle lettere contrabbandate dal Vaticano, sono sbottata: «È orribile la chiesa. Fortuna che ci sono delle brave persone qua e là». Ha ribattuto: «Questa è la chiesa: delle brave persone qua e là». Lui l' amava la chiesa, non perdeva tempo a parlar male dei cattivi; preferiva individuarne il volto fuori dagli schemi consueti. Poteva farlo agilmente, perché aveva un' ottima conoscenza della realtà. Non c' era nulla di utopico in ciò che comunicava, niente di demagogico e tantomeno di consolatorio. Si rivolgeva all' intelligenza di chi lo ascoltava e comunicava: se ci arrivo io, puoi arrivarci pure tu.
Questa sua levità pare in contrasto con l' immagine che di norma si dà del cardinale Martini, ritratto sempre in atteggiamenti pensosi, tipo Crono che medita come divorare i figli. Noi milanesi siamo fatti così, svalutiamo lo humour, all' opera buffa non ridiamo. Se decidiamo che un uomo è grande, deve essere noioso, trasformiamo anche i comici in maître à penser. E certo un arcivescovo deve tenere un certo contegno. Ma se uno solo dei miei lettori volesse darsene la pena, spinto da curiosità, potrebbe provare a leggere una delle sue vecchie lettere pastorali, quella sulla comunicazione di massa, o sulla bellezza, o sulla preghiera. Si troverà davanti a testi vivi, limpidissimi, con metafore bizzarre, riferimenti a autori sorprendenti. Tanti anni fa, poiché mi aveva detto di non aver mai letto, da bambino, libri per bambini, gli regalai Alice nel paese delle meraviglie. Pur conoscendolo abbastanza bene, restai molto sorpresa - e compiaciuta - quando lessi una sua lezione alle scuole di formazione alla politica che iniziava con una analisi bellissima del primo capitolo di quel libro. Lui ha fatto di tutto per comunicare che basta poco, alle pecore, per imparare a pascolare liberamente brucando qua e là: basta che acquistino una certa familiarità con le Scritture, che preghino, e la cosa è fatta.
Moltissimi ambrosiani gli hanno dato retta, ma altri no. E allora lui ha seguitato a dire la stessa cosa in altri termini, e scontrandosi con teste molto dure, negli ultimi anni ha lasciato perdere le finezze di Lewis Carroll e di Dostojevski. Ha smesso completamente gli abiti del professore, si è associato un confratello tedesco, un bravo medico, persino un vecchio arnese come don Verzè (qui magari ha esagerato!) per diffondere in ogni cantone della diocesi il suo invito a darsi gli strumenti per la libertà: unitamente alle tesi altrui, non sempre in sintonia con le proprie.
E qui mi pongo un' ultima domanda: quanto Martini abbia dato a Milano e quanto Milano abbia dato a lui, trascinandolo a tanta concretezza e disinvoltura.
Silvia Giacomoni, la Repubblica, 2 settembre 2012