Monsignor Giudici: A Gerusalemme un Martini «marginale»

Giovanni Giudici
vescovo di Pavia

Il vescovo di Pavia, mons. Giovanni Giudici, è stato vicario generale del cardinale Carlo Maria Martini - scomparso quest’oggi nella casa dei gesuiti di Gallarate (Varese) - negli ultimi 11 anni del suo ministero episcopale a Milano. In quella veste seguì da vicino anche il congedo del cardinale dal capoluogo lombardo nel settembre 2002 e la sua partenza per la casa dei gesuiti di Galloro, presso Ariccia (Roma), dove Martini trascorse per alcuni anni i mesi in cui non risiedeva a Gerusalemme. Il cardinale gesuita ha soggiornato nella Città Santa fino alla primavera 2008, quando il peggiorare delle condizioni di salute lo costrinse a tornare definitivamente in Italia. Anche negli ultimi anni mons. Giudici ha tenuto rapporti stretti con Martini. Gli abbiamo chiesto di condividere con i lettori di Terrasanta.net qualche ricordo sul periodo del cardinale a Gerusalemme.

Monsignor Giudici, padre Martini portava Gerusalemme nel cuore e lo aveva ripetuto molte volte, sin dall’inizio del suo episcopato a Milano. Con quali accenti ne parlava il cardinale in privato?
La notizia della decisione del cardinale di trascorrere i suoi anni di arcivescovo emerito a Gerusalemme fu subito resa pubblica. In privato si tornò su questi argomenti solo per trattare degli aspetti concreti che la scelta implicava. Sono convinto che la ragione di questo modo di procedere sia stata innanzitutto la persuasione, emersa anche esplicitamente nei discorsi con il cardinale, di rientrare nell’obbedienza alla Compagnia di Gesù e quindi di dover ascoltare i superiori della Provincia italiana. Vi era evidentemente anche lo stile di riservatezza che sempre circondava la vita personale di Carlo Maria Martini.

Varie testimonianze riferiscono che, non appena lasciato l’alto ufficio che ricopriva a Milano, Martini riprese uno stile di vita molto semplice e schivo, anche a Gerusalemme. Come viveva?
Visitandolo a Gerusalemme, più di una volta sono stato da lui invitato nella sua stanza. Ampia e luminosa, con una finestra che guardava verso la Porta di Jaffa e l’altra verso Botta Street, conteneva solo il letto, una scrivania e un tavolo, una poltrona. Pochi i libri; alcune volte l’ho trovato intento a prendere un volume dalla biblioteca della casa. In compenso vi erano computer e registratore digitale.

Il cardinale ebbe spesso modo di ribadire che a Gerusalemme egli avrebbe essenzialmente studiato e pregato, intercedendo in modo particolare per la sua diocesi e le tante persone incontrate durante il ministero episcopale. Come è continuato, dal 2002 ad oggi, il suo rapporto con la diocesi di Milano e con coloro che erano stati i suoi principali collaboratori?
A Gerusalemme Martini si rendeva disponibile a parlare con i gruppi di pellegrini milanesi, ma anche italiani o esteri che avessero avuto un contatto con lui. Lo si incontrava; iniziava la riflessione con alcune annotazioni personali a proposito di questo suo tempo in Terra Santa, e poi fiorivano le domande. Si è mostrato anche disponibile a predicare esercizi o ritiri spirituali. Parecchi gruppi di presbiteri ordinati nello stesso anno si organizzavano per chiedere a lui il dono degli esercizi. Ricordo anche un’occasione in cui l’Ordo Virginum di Milano si recò in Terra Santa per vivere l’esperienza degli esercizi spirituali. La disponibilità del cardinale impensieriva talvolta i suoi più immediati accompagnatori: troppo affollate di visite risultavano le sue giornate.

Predicare e incontrare gruppi era, in fondo, un modo per continuare ad essere pastore e padre…
Esattamente. Del resto gli episodi che determinarono la decisione di tornare definitivamente in Italia, voce flebile e difficoltà di movimento, avvennero proprio durante la predicazione di un corso di esercizi spirituali. Possiamo dire che egli rimase sul campo di impegno fino alla fine.

La diocesi di Milano ha trovato modalità concrete per rendersi presente accanto all’arcivescovo emerito a Gerusalemme?
Negli anni del suo ritiro dalla responsabilità nella Chiesa di Milano, Carlo Maria Martini divideva il suo tempo tra Gerusalemme e la casa di ritiri spirituali tenuta dai gesuiti a Galloro. Il dialogo con lui si svolgeva dunque attraverso incontri personali, visite, lettere. Era molto disponibile anche attraverso il telefono, e fu lui stesso a farmi conoscere la comunicazione via Skype. La diocesi promosse anche un pellegrinaggio diocesano per incontrare il cardinale; e una delegazione gli fu vicina nella singolare occasione della sua laurea honoris causa all’Università ebraica di Gerusalemme (nel giugno 2006 - ndr).

Per formazione il cardinale era un biblista e fino all’ultimo lo ha avvinto il continuo porre la sua vita sotto la luce della Parola di Dio, nella lettura della Bibbia. La decisione di tornare a Gerusalemme sembra però richiamare la centralità della vicenda storico-geografica di Gesù. Usando un’espressione forte, potremmo quasi dire che non c’è spazio per alcuna forma di «feticismo» del Libro sacro?
È vero. Sono persuaso che la scelta di andare a Gerusalemme aveva certamente ragioni ideali e simboliche precise. Penso anzitutto al richiamo alla vita di sant’Ignazio di Loyola (il fondatore dei gesuiti - ndr), che va a Gerusalemme e la abbandona forzosamente a malincuore. Penso all’importanza di segnalare uno stile nuovo di rapporto tra la comunità ebraica e la comunità cattolica, segnato da incomprensioni e da tragedie. Penso infine all’amore per la riconciliazione tra due popoli vicini e divisi: in questo preciso contesto il cardinale amava spesso citare le organizzazioni miste, di arabi e di ebrei, che operano per la pace. Ci sono semi di pace in Gerusalemme, amava ripetere. Tuttavia ritengo che la scelta di andare a Gerusalemme faceva parte di una strategia di distacco non solo da Milano, ma anche da una collocazione di grande evidenza nella comunità cattolica. Come non abbandonare il suo impegno di testimonianza e tuttavia sparire dalla scena pubblica del cattolicesimo non solo italiano ma mondiale? Sappiamo quali speranze si appuntavano su di lui, in maniera peraltro ingenua o talvolta strumentale. Bene, stare a Roma, o nelle vicinanza, per qualche mese, e poi rimanere a Gerusalemme per altri mesi, gli consentì di diventare «marginale» in tutte e due le località. E così di svolgere il suo ministero semplice ma sostanzioso.

Come intendeva il suo vivere in una realtà tanto conflittuale come Israele e la Palestina?
Questa domanda ricorreva quasi sempre nelle conversazioni a cui io ho potuto partecipare. Il cardinale rifletteva con calma sulla impossibilità di prendere posizione, per la complessità dei motivi storici e attuali che dividevano le due comunità. Ma faceva anche rilevare l’abbondanza di preghiera che si leva a Gerusalemme, oggettivamente, per la causa della pace e della riconciliazione.

Come Giovanni Paolo II, sebbene meno esposto all’occhio dei media, il card. Martini ha vissuto anche pubblicamente la sua malattia, senza lasciarsi imprigionare da essa. Vi siete mai confrontati su questo tema? Come ha maturato, e con quanto dispiacere, la decisione di rientrare in Italia nel 2008 per stabilirsi a Gallarate?
Il cardinale ha sempre parlato con molta chiarezza dei sintomi della sua malattia; narrava la caduta per strada, ricordava l’angoscia della mancanza di respiro nella notte. Ma non si trattava di un lamento o di una richiesta di attenzione pietosa. Egli, parlando dei suoi malanni, dava sempre l’impressione che primario in lui fosse un impegno forte, deciso e personale nel contrastare il danno fisico causato dalla malattia. Non dunque un guardarsi come ammalato. Con un simpatico orgoglio diceva spesso che il medico curante gli aveva detto che lo trovava bene, che si congratulava per la fedeltà alle cure, agli esercizi fisici per contrastare il malanno. Ricordo, a proposito della malattia, come mi avvertì che avrebbe definitivamente abbandonato Gerusalemme per tornare in Italia. «Sai - mi disse - questa casa dove abito è in grado di ospitare uno che deve morire, ma non un ammalato…».

Cosa ha consegnato all’uomo e vescovo Giovanni Giudici il contatto assiduo con il cristiano e pastore Carlo Maria Martini?
L’esperienza di vivere più di dieci anni a contatto diretto con Martini mi ha consentito di apprezzare quanto il rapporto con una persona aperta e trasparente possa cambiare la vita e il modo di pensare. Faccio solo un elenco di temi e azzardo qualche riflessione. Nell’agire e nel vivere l’autorità del cardinale Martini ho sempre visto un grande rispetto per le persone, la loro individualità, le loro scelte di dedizione. In esse, mi pareva di intuire, Martini vedeva sempre l’opera dello Spirito. Vi era, nel cardinale, uno sguardo sereno e fiducioso a proposito della vita della società e della Chiesa, e ciò si coniugava con una capacità di lettura realistica, talvolta addirittura fortemente critica della realtà. Il suo sguardo sulla comunità cristiana e la sua opera andavano nella direzione di privilegiare una Chiesa libera perché sciolta da schemi ideologici, da angusti orizzonti di utilitarismo o di efficienza, da condizionamenti e da volontà di potere o di apparire. Sono persuaso che tutto questo nasceva dalla passione per la vita spirituale del cristiano, da coltivare, da sviluppare, da far fiorire. Penso a come il cardinale Martini qualche volta ha descritto se stesso: il giovane Carlo Maria, allievo diciassettenne del collegio dei gesuiti di Torino, che sceglie a quel punto della sua vita di uscire dalla bella casa di un industriale della lana per entrare nella Compagnia di Gesù. E sono persuaso che egli sia stato fedele a quel suo primo amore: sono di Dio, la mia vita è sua.

Giampiero Sandionigi, www.terrasanta.net, 31 agosto 2012